Le mani del nonno

I miei nonni erano caratterizzati da una grande manualità. Alcune delle memorie più care che ho di loro includono immagini vivide delle loro mani. Poteva essere il venire accarezzato dalla nonna quando ero bambino, o l’incedere lento con il mestolo mentre cucinavano per tutta la famiglia. Magari invece era la risata suscitata dalla storia assurda quando il nonno, durante un ennesimo lavoro in giardino quasi perse un dito (che per fortuna gli fu riattaccato…).

 

I miei nonni erano caratterizzati da una grande manualità e di tanto in tanto penso, guardando le mie mani, di averle in qualche modo ereditate.

 

I miei nonni sono sempre stati una grande fonte di ispirazione durante la mia crescita. Nonna era una bella, estroversa, gioiosa e premurosa donna. Era anche molto elegante, emanava un’aura affascinate ed era conosciuta da tutto il paese. Nonno era più riservato, meno appariscente e in qualche modo più semplice. Abituale, lo si poteva trovare a bere il caffè al bar intento a leggere i giornali. C’erano poi gli appuntamenti annuali come le fiere campestri o le manifestazioni sportive del locale velo club quando aiutava a cuocere pentoloni di polenta, risotto o maccheroni per centinaia di visitatori, oppure quando arrivava il tempo della vendemmia e produceva la grappa usando l’uva americana del giardino, e che veniva “esportata” per uso proprio, infilata in una valigia, da quei due briganti dei suoi nipoti. Infine, c’era anche il suo mazzo di carte milanesi, che inesorabilmente si sbiadiva verso la fine di novembre a causa degli infiniti solitari e che regolarmente gli sostituivo a Natale regalandogliene uno nuovo.

 

Detto questo c’erano anche parti di lui che conoscevo poco e che ho iniziato a scoprire solo recentemente. Momenti della sua vita trascorsa come artigiano, ancora prima di essere nonno. Il suo soprannome era ul Pitúr (l’imbianchino in dialetto), ma soltanto durante gli ultimi anni della sua vita ho elaborato cosa volesse veramente dire per lui: essere imbianchino non rappresentava solo una professione, significava anche vivere una vita semplice, umile ma felice, di cui andava orgoglioso. Significava avere la responsabilità di impiegare operai a lavorare per lui. Significava essere fiero delle sue conoscenze e fiero delle sue origini, ricordate raccontando ai nipoti, seduti intorno al tavolo da pranzo, storie di avi, ma anche pitturando stemmi di famiglia e alberi genealogici da tramandare.

 

È con questa semplicità, umiltà e passione che impugnava quotidianamente i suoi strumenti di lavoro e i suoi attrezzi e che infine hanno trovato una nuova casa nel continente americano, qui con me, nel mio studio. Ed è con semplicità, umiltà e passione che ho concluso alcuni mesi fa il restauro di questo suo coltello da petto adatto per scortecciare. Ho faticato a trovare le parole che descrivessero il valore che ciò rappresenta per me, perché per me questo attrezzo rappresenta mio nonno Bruno.

 

Per mesi ho cercato il momento giusto per iniziare il restauro del coltello: il degrado che aveva subito negli anni necessitava una riparazione? Oppure era sufficiente affilare la lama? Da artigiano, ho immaginato che lui avrebbe trovato soddisfazione nel vederlo ritrovare il suo stato originale, così come si imbiancano i vecchi muri di una casa per donargli nuova vita. Penso anche a come avrebbe reagito vedendo il suo attrezzo “a nuovo” per la prima volta: un deciso movimento di approvazione col capo e con un veloce gesto di conforto con il suo dito aggiustato (una storia per un altro giorno). Si sarebbe anche divertito sapendo che avevo deciso di trasportare il pezzo di tronco di ulivo toscano, che poi ho utilizzato per rifare i manici, nel bagaglio a mano per poi venir fermato dagli agenti aeroportuali che mi chiedevano come pensavo che potessi imbarcare una mazza in legno con me sull’aereo.

 

Avevo deciso: si meritava un restauro totale.

Prima del restauro: lama smussata e arrugginita e manici rotti

 

Lavorando su altri progetti nei mesi successivi, mi sono permesso di attendere in maniera organica l’ispirazione per il restauro: non la forzavo, ma più passava il tempo più mi rendevo conto che ci stavo pensando troppo. Il punto era proprio la semplicità! Così ho impugnato i manici, sfiorandoli con le dita, cercando delle sensazioni. E in quel momento ho trovato supporto nella sua ultima riparazione, dove nonno ha sostituito uno dei manici originali corti e tozzi con un pezzo di legno più lungo e sottile. Grazie nonno per avermi aiutato nella fase di prototipo!

Pensando a lui, volevo che i manici ricordassero dei sottili pennelli: delicati, lunghi e leggeri. Potevo quasi vedere la loro punta, raffigurata nella coda dei manici intinta nella pittura, (vi lascio decidere se si tratta di libertà poetica o immaginazione approssimativa).

Ho abbozzato un paio opzioni sul mio quaderno, confermato le dimensioni definitive e preparato sul tornio l’ulivo tenuto da parte per questo progetto. Finita la tornitura sono passato alla lama, che è stata lucidata, richiamando la metafora di “dare una mano di vernice fresca” all’attrezzo.

Ma per completare il lavoro il dettaglio che più mi ha dato difficoltà è stato il banale anello di ottone che connette i manici alla lama. Pieno di ambizione mi sono immaginato di poterlo lavorare partendo da una barra solida… al tornio per metalli… che non posseggo. No, dovevo abbozzare qualcosa di diverso. Dopo alcuni tentativi falliti ho capito che potevo semplicemente utilizzare un piccolo pezzo di tubo in rame e…voilà!

Eccolo! Finalmente era tutto pronto e assemblato. Ho osservato il progetto completato per alcuni minuti, in silenzio, chiuso nel mio piccolo studio di 3 metri quadrati. Immagini vivide e vivaci della mia infanzia con i nonni si rincorrono dietro le mie palpebre, proiezioni animate delle foto che rappresentano il mio passato. Sorrido soddisfatto e con il cuore pieno di felicità posiziono il coltello da falegname sulla rastrelliera appesa al muro, recupero il mazzo di carte e mi perdo nei ricordi mentre gioco al solitario che mi ha insegnato il nonno.